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Frutti da fiaba

di Morello Pecchioli

C’era una volta una regina d’incantevole aspetto, bella e buona. Talmente buona che veniva voglia di morderla. Aveva pelle rosea, liscia e lucida come la buccia di una mela. La regina era una mela. Il suo nome? Annurca. La regina delle mele. La sovranità sulle consorelle della famiglia delle Rosacee le era stata attribuita dai golosi sudditi fin dall’età dell’oro. Dopo duemila anni d’incontrastata egemonia sulle altre mele, il suo regno iniziò a vacillare, quindi a tramontare, e a decadere sempre più. E più la supremazia andava scemando, più la mela Annurca perdeva sudditi. Sempre più dimenticata, stava per sparire. Quand’ecco che…

La nostra Mela Rosa dei Sibillini piccola e simile alla Mela Annurca rischia anch'essa di essere dimenticata

Questo articolo sui frutti dimenticati prende spunto dalla favola della mela annurca per dare, fin dall’incipit, un segno di speranza. La storia della regina delle mele, infatti, come in ogni favola che si rispetti, è a lieto fine. Il pomo prosperava già un paio di millenni fa nella Campania Felix. Originaria del territorio intorno al lago d’Averno, considerato dai romani la porta dell’Orcus, gli inferi, la regina delle mele deve il nome a Plinio il Vecchio. Fu lui a chiamarla mala orcula nella Naturalis historia, collegando il nome al mitico luogo d’origine. Traducendo liberamente, mala orcula significa “la mela che cresce nei campi vicini all’Orcus”. Dopo duemila anni di avidi morsi, la bellissima mela conobbe alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso un declino che sembrava inarrestabile. Essendo un pomo cadùco, che cade, cioè, in fase di maturazione, ha bisogno di essere raccolto acerbo e messo a completare la stagionatura su tappeti di paglia stesi al suolo. La difficoltà di lavorazione unita alla scarsa richiesta dei mercati pareva aver compromesso l’esistenza della mela campana.

Ma ecco il lieto fine: grazie alla tenacia di appassionati coltivatori la tendenza negativa è stata invertita. Una intelligente ed efficace promozione della mela ha fatto sì che tornasse a farsi apprezzare e a guadagnarsi il marchio europeo Igp, l’Identificazione geografica protetta, come “Melannurca campana”. In settembre e ottobre, dopo la raccolta, nella zona dei campi Flegrei, nei territori di Aversa e Maddaloni, ai piedi dei monti Picentini e nelle valli di Telesina e Caudina nel Beneventano, si possono ammirare i lunghissimi, splendidi tappeti di mele annurche. La regina è tornata.

Grazie a Dio e agli uomini di buona volontà ci sono altre favole a lieto fine nel mondo della biodiversità e, in particolare, in quello dei frutti dimenticati. Prendiamo il chinotto, ad esempio. L’agrume che somiglia all’arancia è stato candito e riverito dall’arte pasticciera mondiale per quasi due secoli. Raggiunto il massimo splendore nel periodo della Belle Époque sotto forma di dolci canditi, aperitivi, bevande aromatizzate, sciroppi e liquori, per colpa delle due guerre mondiali e dell’evoluzione del gusto dal dolce al secco, il chinotto, impossibile da mangiare perché molto acido, si avviò verso un declino inarrestabile. La pianta fu sull’orlo dell’estinzione nel territorio in cui aveva trovato il suo habitat migliore: la costa ligure di Ponente, il Savonese in particolare, dov’erano sorte molte industrie legate alla sua lavorazione. Nel 1990 si contò solo un centinaio di piante. Il pericolo di veder sparire anche queste fu scongiurato grazie a Slow Food, che iscrisse il chinotto nell’elenco dei presidi da tutelare, e alla ripresa della commercializzazione dell’agrume, conosciuto in Italia fin dal XVI secolo. Ma il lieto fine, se non si ha a cuore la biodiversità, non è duraturo. L’happy end rischia di rimanere tale solo nelle favole e nei commoventi film d’amore.

confettura di morici

Quando eravamo povera gente, e cioè fino a una sessantina d’anni fa, i bambini andavano al cinema parrocchiale con una carruba in tasca, frutto dolciastro che, insieme a cavallette e miele selvatico, era nel menu di Giovanni il Battista e di quello scialacquatore del figliuol prodigo. La carruba era il pop-corn di allora. I bimbetti pre-boom la acquistavano dal fruttivendolo che stazionava davanti al cinema col suo carretto e la sgranocchiavano durante il film. Mordicchiata e assaporata con calma, durava due pellicole consecutive. La carruba esiste ancora, ma è finita nel nostalgico elenco dei frutti dimenticati. Nessuno più, se non porci e cavalli che ne sono ghiotti, la mangia. Dai semi che un tempo si usavano per pesare l’oro (gli arabi li chiamavano qirat da cui deriva “carato”, unità di misura ponderale del prezioso metallo) si ricava una farina impiegata come surrogato del cacao dall’industria alimentare.

Tra i frutti dimenticati c’è anche la corbezzola, figlia della pianta che, come il Piave e il Monte Grappa, è sacra alla Patria. Cantato da Giovanni Pascoli nell’Ode al corbezzolo, l’albero simboleggiò l’unità d’Italia durante il Risorgimento, perché in autunno ospita, contemporaneamente, i frutti rossi, i fiori bianchi e le foglie di un verde lucido. Questi alberi sono talmente belli da vedere da suggerire un’espressione di meraviglia con tanto di punto esclamativo: “Corbezzoli!”. Modo di dire, in questi tempi volgarmente yankee, sostituito dal belluino “wow”.

C’era una volta – per riprendere il tema favolistico – il brolo, l’orto-giardino magico e misterioso che si allargava alle spalle di una villa o di un casolare padronale o di un palazzo nobiliare cittadino. Nell’hortus conclusus, circondato da muri o da siepi di spinosi biancospini, crescevano alberi dai cui rami pendevano frutti che, ora, sono in gran parte dimenticati o si stanno dimenticando: azzeruole, cotogne, marasche, melagrane, uva spina, pesche sanguinelle, nespole e altri bramati frutti che i bambini abitanti intorno al brolo concupivano e, quando potevano, andavano a cogliere saltando muretti e reticolati, rischiando sganassoni e pedate nel sedere prima dagli egoisti proprietari e poi dai genitori.

Abbattuti i muri, divelte le siepi di biancospino – anche se la leggenda dice che tagliarlo porti sfortuna –, i broli sono stati lottizzati e i pochi rimasti sono inselvatichiti. Con essi sono sparite tante piante da frutto. Secondo un rapporto della Coldiretti, alla fine dell’Ottocento si contavano 8000 varietà di frutti. Poco più di cent’anni dopo se ne contano 2000 circa, 1500 delle quali sono a rischio estinzione. Uno studio della Fao (Food and agricolture organization) certifica che nell’ultimo secolo, in Italia, alcune specie di alberi da frutto, come albicocco, ciliegio, pesco, pero, mandorlo e susino, hanno registrato una perdita di varietà pari a circa i tre quarti. Tuttogreen, guida pratica alla green economy, riferisce che nel solo Sud Italia, tra il 1950 e il 1983, delle 103 varietà locali mappate durante il primo sopralluogo solo 28 erano ancora coltivate tre decadi dopo.

Un macello. Un’apocalisse. Siamo diventati analfabeti del cibo. Scomparendo i frutti, sono spariti sapori secolari, conosciuti dai nostri nonni e dai nonni dei nonni dei nonni. Forse non siamo più povera gente, ma di sicuro ci siamo impoveriti di sapori, di colori, di presenze arboree che i nostri vecchi ben conoscevano e che, soddisfacendo il palato, arricchivano anche la lingua. Qualche esempio? La giuggiola e il suo celeberrimo brodo registrato nel Vocabolario della Crusca nel 1612. Quale giovane va più in brodo di giuggiole quando è innamorato cotto di una ragazza da essere fuori di sé per la contentezza? Dean Martin, il cantante italo-americano, preso d’amore per la morbidosa Marilyn Monroe le dedicò una canzone: “They call the Lady Giuggiola, Giuggiola, Giuggiola…”. Ma di giuggiole se ne trovano sempre meno. Per fortuna in qualche luogo è ancora tenuta in alta considerazione. Ad Arquà Petrarca, sui Colli Euganei, dove la pianta cresce abbondante, ogni anno in ottobre si celebra la “Festa delle zizoe”, le giuggiole, ingrediente indispensabile per il tipico piatto del bisato coe zizoe, l’anguilla con le giuggiole. La pianta che nell’antichità era sacra a Minerva, che l’aveva eletta a simbolo di prudenza, sta finendo nel dimenticatoio. E pensare che i suoi frutti danno confetture straordinarie. Ricca di vitamina C e di altre virtù benefiche, ha proprietà emollienti ed espettoranti. Erodoto racconta che egizi e fenici ne ricavavano una specie di vino di cui andavano matti.

Altro curiosissimo contributo al linguaggio figurato lo ha dato la biricoccola, incrocio naturale tra l’albicocca e il susino. La biricoccola, ottima per fare crostate, frittelle alla frutta, sorbetti e confetture, è ormai quasi introvabile. Venne battezzata italiana a tutti gli effetti da Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini nel Dizionario della lingua italiana del 1861, ma a metterla sulle spalle della gente come sinonimo di “testa” fu il popolo e, nella variante “ciribiricoccola”, fu dapprima l’attore Erminio Macario (“Se perdo la ciribiricoccola…”), poi lo Zecchino d’oro con la canzone del 1974 La ciribiricoccola, e infine Topo Gigio che in Strappazzami di coccole ne fece un tormentone.

Vogliamo tacere della nespola? Questo frutto, che i Romani chiamarono Mespilus germanica e Linneo si accodò quando, diciassette secoli dopo, lo battezzò scientificamente con lo stesso nome, ci ha dato una delle più felici espressioni figurate della parlata quotidiana: “Col tempo e con la paglia maturano le nespole”. Deriva dall’antica pratica contadina dell’ammezzimento, di raccogliere, cioè, sulla paglia le nespole o altri frutti che hanno bisogno di una lenta maturazione, nei solai o nei fienili. La frase è la sintesi dell’ottimismo. Significa “dar tempo al tempo”, mettersi in fiduciosa attesa e, prima o poi, le cose cambieranno in meglio, proprio come le nespole.

Morici o gelsi neri

Tra i frutti dimenticati c’è la mora di gelso, quella bianca del Morus alba, ma, soprattutto, quella del Morus nigra: vermiglia, sugosa, piena di sapore. Prima che i gelsi venissero tagliati dissennatamente depauperando il paesaggio della pianura padana, i bambini facevano a gara ad arrampicarsi sui tronchi rugosi lanciandosi sfide e cantilene: “Chi mangia more muore / chi non le mangia crepa…”. Celebre, in Sicilia, la granita alla mora. Le more bianche, seccate, sono utilizzate nel muesli, la miscela di frutta secca e cereali consumata a colazione soprattutto nei paesi del Nord. Alla mora di gelso è legata la bellissima storia di Piramo e Tisbe raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi. È l’infelice vicenda di una Giulietta e di un Romeo dell’antichità. Piramo e Tisbe si amavano, ma il loro amore era contrastato dalle rispettive famiglie. Un giorno decisero di fuggire dandosi appuntamento sotto un gelso. Tisbe arrivò per prima, ma una leonessa le sbarrò la strada. La fanciulla scappò e si salvò, ma perse il velo che, artigliato dalla belva, si macchiò col sangue della stessa. Quando Piramo trovò il velo, credette che Tisbe fosse stata sbranata. Impazzito per il dolore, si gettò sulla sua spada. Tisbe, ritrovatolo in fin di vita, gli sussurrò le ultime parole d’amore, poi, estratto il gladio dalla pancia dell’amato, si suicidò. La tristissima vicenda commosse gli dei, che onorarono l’infelice amore trasformando le bianche more del gelso, zuppo del sangue dei due giovani, in more di color rosso intenso.

La melagrana non dovrebbe stare in un articolo sui frutti dimenticati. È vero che, in stagione, si trova in parecchi negozi di fruttivendoli, ma non in tutti. Vero è che il Malum granatum è presente in moltissimi giardini, ma solo perché è molto decorativo grazie ai fiori e ai frutti rossi. In Italia sono sempre più rare le coltivazioni di melograni. Più che dimenticata in testa, la melagrana sta diventando un frutto dimenticato in bocca: per la scorza coriacea difficile da sbucciare, per il gusto acidino, per la difficoltà a sgranarla, per il fastidio dei semini che s’infilano tra i denti, per la membrana cellulosica interna che allega lingua e palato, non trova molti compratori. Spremerla? Grande idea: la granatina è buona, dissetante e fa bene. Ma occorre sgranarla con pignoleria perché, se la spremuta non è fatta bene, è maledettamente tannica, amara. In certe cose noi italiani siamo un popolo di pigri. Le spremute preferiamo farcele fare. È per questo che si vedono sempre meno melagrane dai fruttivendoli e nei reparti ortofrutta dei supermercati.

Se l’annurca è la regina delle mele, la melagrana è la regina dei frutti. Quale altro ha la corona? Quel residuo del calice fiorale portato con tanta regalità sul lato B? Quel diadema e la sovrabbondanza di chicchi, più di 600, rinchiusi nella buccia come rubini in uno scrigno hanno caricato la melagrana di significati simbolici, più di ogni altro frutto, fin dai tempi più antichi. Per egizi, fenici, mesopotamici era simbolo di fertilità, abbondanza, rigenerazione, vita. I greci l’avevano innalzata all’Olimpo mettendola in mano a Era, protettrice del matrimonio. Lo stesso faranno i romani con Giunone e adorneranno le teste delle spose con coroncine di fiori di melograno in segno di augurio. Per gli ebrei rappresentava la santità. La melagrana era applicata sulla veste rituale del sommo sacerdote e scolpita sui capitelli del tempio di Salomone. Stessa cosa per i cristiani: il frutto compare sui paramenti sacerdotali come simbolo del perfetto cristiano, e tra le foglie d’acanto dei capitelli corinzi sulle colonne delle chiese. Ancora: è il simbolo della bellezza e delle numerose virtù della Madonna. I rossi chicchi richiamano il sangue dei martiri. Sandro Botticelli, nella stupenda Madonna del Magnificat, pone il frutto nelle mani di Gesù Bambino e della sua mamma quale simbolo della Passione.

La cotogna, frutto platonico che stiamo dimenticando sempre più, è il pomo perfetto. Guardi una cotogna e vedi una mela, ne guardi un’altra e vedi una pera. Yin e yang. Metà e metà. Anema e core. Leopoldo Fregoli della fruttiera, frutto trasformista della famiglia delle Rosaceae, la cotogna ha due facce come Giano Bifronte. In realtà non è né mela né pera. È una specie a sé stante, anche se viene abitualmente chiamata mela cotogna. Frutto sacro ad Afrodite, la dea della bellezza, nella Grecia classica era il simbolo dell’amore e della fertilità. La sposa entrava nella casa dello sposo portando in dote una cotogna, che simboleggiava l’augurio di un matrimonio felice. La fanciulla mangiava la cotogna prima di adagiarsi sul talamo nuziale, certa che quel virgineo spuntino sarebbe stato fruttifero di figli. Ogni correlazione tra il confino della cotogna nel libro dei frutti dimenticati e la denatalità è puramente casuale. I romani usavano le cotogne in molti modi, spesso col miele per mitigarne il sapore acidulo: ne ricavavano una bevanda fermentata che addolcivano con il miele. Apicio suggerisce la ricetta di un pasticcio di porri, mele cotogne, garum (salsa di pesci marinati), olio, mosto e miele. Bleah. Marziale le consigliava all’amico Cecropio farcite di miele. Nonostante la bella storia, la cotogna è in vertiginosa caduta.

Perché? Quali sono le cause che ci hanno fatto dimenticare, oltre ai frutti sopra citati, la pera mandorlina, il crespino, il melone zatta, il melone serpente, l’uva negretta, il pero misso, le nere bacche del sambuco, quelle rosse della rosa canina e decine di altri frutti? Il profitto, innanzitutto: l’agricoltura moderna, mossa anche dalla Gdo, la grande distribuzione organizzata che opera in base al prezzo, alla quantità e alla comodità, seleziona colture estensive e di alto guadagno anziché produzioni di nicchia poco richieste. C’è, poi, l’incapacità e l’ignoranza italiana di fare marketing puntando su eccellenze e tipicità. Incidono molto anche le difficoltà di produzione, di conservazione e di trasporto. Fondamentali le scelte dei consumatori: se si accontentano di acquistare i prodotti proposti dai supermercati è chiaro che questi non sono stimolati a vendere frutti particolari.

Stiamo riperdendo il paradiso? Forse no, forse qualche lembo riusciremo a salvarlo grazie ai contadini innamorati della biodiversità, ai mercatini rionali o a chilometro 0, alle feste e alle sagre dei frutti dimenticati, ai fruit hunter, i cacciatori di semi, novelli Noè che salvano dal diluvio le piante in via di estinzione. Un grande contributo lo hanno dato poeti come Tonino Guerra, che ha creato, a Pennabilli, l’Orto dei frutti dimenticati, e papa Francesco che, con le sue omelie e con l’enciclica Laudato si’, ha smosso parecchie coscienze addormentate sul tema della biodiversità. E grazie anche a noi, se impareremo a non farci condizionare.

L’articolo è tratto dalla

Rivista Vitae n. 17, giugno 2018, edita dall’Associazione Italiana Sommelier”.

3 Commenti

  • Azienda Agricola SiGi Inviati il 27 gennaio 2021 11:30

    Il nostro ringraziamento particolare da tutta l’Azienda va al giornalista, alla sua passione e alla sua cultura e capacità di ricerca che sono alla base del possibile salvataggio dall’analfabetismo alimentare a cui siamo condannati dall’epoca moderna.
    Questo articolo ci ha colpiti moltissimo perché ricalca tanti dei nostri sacrifici giornalieri da 25 anni a questa parte (senza conoscere il giornalista) e per questo e per la sua estrema diffusione ringraziamo l’Associazione Italiana Sommelier

  • Azienda Agricola SiGi Inviati il 4 febbraio 2021 15:19

    Morello Pecchioli
    morello.pecchioli7@gmail.com
    Giornalista professionista. Goloso e curioso, ha iniziato a confessare i peccati di gola sulle pagine del quotidiano l’Arena di Verona, di cui è stato caposervizio e per il quale ha creato e curato per anni la pagina “Gusto” sulla quale ha raccontato i prodotti del territorio, le cantine e le cucine regionali italiane.
    Ha scritto libri di storia ed enogastronomia. Pubblicati da Gribaudo-Feltrinelli sono usciti i libri Verdure dimenticate, Il grande libro delle frittate, I frutti dimenticati, Il grande libro dei funghi e dei sapori del bosco. Scrive per Vitae, rivista nazionale dell’Associazione Italiana Sommelier; per Vinetia, rivista regionale dell’Ais; per il mensile Civiltà della tavola dell’Accademia italiana della cucina di cui è accademico onorario e componente del Centro Studi “Franco Marenghi”; per il quotidiano La Verità.

  • Trackback: Morici o gelsi neri – Azienda Agricola SiGi

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